Tra le tante cose che la pandemia di Covid-19 ha portato con sé, una di queste è sicuramente lo smart working.
Mentre fino a gennaio 2020 era visto come qualcosa di inefficiente, ad oggi in tempi di restrizioni è l’unica soluzione per non dovere chiudere aziende ed attività.
Lo smart working consiste in pratica nel lavorare da casa, o comunque non in azienda quindi, come ovvio che sia, non tutte le attività hanno potuto adottarlo.
Agli inizi, ogni lavoratore era entusiasta di questo lavoro da casa ma, con il tempo, lo smart working è diventato un incubo tanto che alcuni esperti hanno iniziato a parlare di “malattia da smart working“.
Ma a cosa è dovuto questo nuovo tipo di malattia?
Innanzitutto, alle ingerenze dei propri capi. A queste ingerenze corrispondono orari di lavori senza un limite temporale con la scusa del “tanto sei a casa”, reperibilità quasi h24 e aumento dello stress.
In poche parole, come hanno riportato alcuni psicologi, gli smartworker hanno ad oggi problemi a dividere il lavoro dalla vita privata.
In pratica chi lavora da casa, non riesce più a capire quando sta lavorando e quando invece dovrebbe avere del tempo libero.
Ne consegue ovviamente una scarsa qualità del lavoro stesso, l’aumento di stress ed ansia e soprattutto scatti d’ira improvvisi.
Secondo un indagine ISTAT, su un campione di 5 mila lavoratori in smart working, il 97% ha dichiarato che da casa ha lavorato quasi sempre almeno 1 ora in più al giorno. Il 76% invece addirittura 2 ore in più al giorno.
Sempre sullo stesso campione, è stato chiesto quanti di lavoro causa lavoro da remoto abbiano perso la pausa pranzo. Hanno risposto in modo positivo il 61%.
Quindi, quella che sembrava la pratica da adottare anche in futuro, si sta rivelando un problema, causato principalmente dai datori di lavoro.